La fine degli spazi aperti
Gli spazi tradizionali di aggregazione sono progressivamente scomparsi dalle espansioni urbane.
Fin dal secondo dopoguerra le città sono cresciute attraverso la nascita di nuove aree residenziali orbitanti attorno al centro.
Quartieri a destinazione pressoché monofunzionale, sorti in un clima di urgenza costruttiva che ha visto spesso l'obiettivo della qualità urbana subordinato all'esigenza di offrire una rapida risposta alla domanda di alloggi.
La politica del "tetto per tutti" si è rivelata un utile paravento per spregiudicate speculazioni.
Anche l'azione statale dei Piani per l'Edilizia Popolare seguiva le logiche dell'intervento di bassa qualità urbana, dovendo confrontarsi con il mercato privato della casa in una prospettiva di massimo contenimento dei costi.
La vittima della corsa alla costruzione a costi minimi e massimo guadagno è stata la città: i nuovi quartieri nascono secondo una logica "commerciale" dell'investimento di capitale, che privilegia la redditività rispetto alla produttività; sono privi di tutto ciò che non ha un valore direttamente monetizzabile sul mercato immobiliare.
Sono i luoghi dell'enfatizzazione della dimensione privata, la cui fruizione è concepita alla scala del singolo alloggio; le dotazioni di spazi collettivi sono subordinate al fatto che appartengano (e quindi siano vendibili) a qualcuno.
Giardini condominiali recintati, quindi, e verde pubblico insufficiente e non attrezzato.
È la civiltà dei cancelli, in cui la strada, la dimensione pubblica, non è che il vuoto tra gli spazi privati, un non luogo concepito e riservato alla percorrenza automobilistica.
Spazi la cui vita è concepita a partire dalla dipendenza da altri luoghi che ne integrino le carenze funzionali, secondo i principi di una scansione funzionale delle aree della città.
L'apparente funzionalità della zonizzazione ha creato i danni maggiori in ambito sociale: annullare la pluralità comporta inevitabilmente l'impoverimento del panorama sociale e culturale.
La principale risorsa espressiva della città è legata alla concentrazione di individui, che permette la formazione di molti gruppi eterogenei ad alta specificità; la densità sociale consente di rintracciare individui con specificità molto simili alle proprie e quindi di trovare terreni di espressione e confronto tra simili che enfatizzino le peculiarità individuali.
In un paese di mille abitanti, difficilmente potrò trovare qualcuno con cui condividere la mia passione per il cinema muto ungherese, mentre in una città, con un po' di fortuna, potrò addirittura iscrivermi ad un gruppo di "amici del muto ungherese".
Il valore di questa "possibilità di diversità" in termini di arricchimento sociale è però condizionato dalla visibilità reciproca tra gruppi diversi.
Le piazze, le vie commerciali pedonali, sono gli spazi di tutti, in cui si identifica la dimensione collettiva di una città.
Sono spazi aperti non solo in senso fisico, ma soprattutto perché la loro frequentazione, la possibilità di avvertire la propria appartenenza a questi luoghi e quindi di poterli rendere spazio della propria espressione, non sono subordinate al possesso di alcun requisito.
Il progressivo trasferimento dell'aggregazione sociale in spazi chiusi ha legato la dimensione sociale alle regole del commercio, che ha nell'identificazione di un bacino di utenza il presupposto fondamentale.
E nella capacità di acquisto una discriminante.
Questi luoghi si rivolgono a gruppi sociali precisamente identificati e favoriscono una visibilità tra simili; "l'incidente sociale", la possibilità, cioè, di un'interazione focalizzata fortuita tra due individui con modi di vita radicalmente diversi, non è prevista.
Reale e virtuale
La città è il luogo del concreto confronto della nostra cultura con il nuovo.
È il teatro della notizia, dove le cose succedono.
Nella città la nostra cultura si confronta con l'inedito (tecnologico, sociale, culturale…) e elabora nuovi modelli di assimilazione che sono rapidamente estesi anche ai luoghi dove il contatto con il nuovo non è ancora avvenuto, dove l'esperienza del diverso è ancora informazione e, quindi, virtuale.
La città è comunque anche luogo di esperienza virtuale.
La dimensione urbana è divenuta inscindibile dal modello culturale e economico occidentale, tanto da venire esportata contestualmente alla nostra cultura.
Il terzo mondo vive così un'urbanizzazione certamente diversa come origini ed esiti, ma certamente legata al modello occidentale.
La dimensione della città è così sempre più quella di network, rete di scambio di modelli culturali tra realtà molto diverse, ma che fanno capo a una matrice culturale sempre più universale, a un modello di vita urbana dai caratteri generalizzati che lega Milano a Parigi, a New York, a Carpi, a Nairobi, realizzando un modello di città mondiale.
La perdita di esperienza diretta della diversità che si riscontra nella vita sociale urbana coesiste con un aumento travolgente di informazione virtuale sul diverso, che supera le barriere della dimensione locale fornendo l'illusione della coesistenza di realtà lontanissime in un unico modello universale e totalizzante.
Il network informativo, e internet in particolare, sono i vettori e la reificazione di questa suggestione: un mosaico di differenze, inafferrabile nei suoi contorni, ma che apparentemente ritrova un'unitarietà d'immagine attraverso il mezzo che lo rende visibile.
Dal monitor il mondo entra nella dimensione individuale suggerendo l'idea dell'appartenenza a una globalità sfuggente nei contenuti, ma codificata o codificabile nelle forme, di cui l'individuo ha la sensazione di far parte perché avverte come proprie le regole comunicative (visive, tecnologiche, culturali) del mezzo attraverso cui ha l'immagine del diverso.
Il diverso mi appare meno distante se ne percepisco l'immagine attraverso un mezzo il cui linguaggio mi è familiare.
Oggi possiamo essere informati sulla fame nel terzo mondo e non avere mai parlato con un povero o un handicappato mentale della nostra città.
Il modello culturale delle nostre città rischia un'inconciliabile divergenza tra l'assimilazione virtuale assoluta del diverso e l'incapacità/impossibilità di esperienza diretta del diverso.
Il "diverso virtuale" ha difficilmente i caratteri del diverso "sotto casa" e l'etica del confronto e dell'assimilazione diffusa dai canali informativi rischia di divenire struttura morale vuota.
E la difesa dalla diversità può diventare la risposta individuale prevalente, nel timore di perdere i propri caratteri e i propri valori nella progressiva globalizzazione di un modello in cui il singolo non riesce a riconoscersi, perché appare inadeguato a rappresentare la realtà concreta dell'esperienza individuale.
Pubblico e privato: l'indifferenza
L'abbandono dei luoghi pubblici a fruizione indifferenziata rispecchia una più generale tendenza all'enfatizzazione della dimensione privata, percepita come radicalmente distinta da quella pubblica.
Il valore sociale del consumo comporta una forte identificazione dell'individuo nel possesso, e quindi nella dimensione privata.
Se il privato diviene la realtà fondante dell'ordinamento sociale la dimensione collettiva perde progressivamente valore, tanto in termini di coscienza di classe quanto di solidarietà.
La ricettività e la tolleranza nei confronti del diverso si riducono, innalzando la richiesta di ordine e conformità.
La politica non è quindi più il territorio dell'impegno, ma della delega.
Alla politica il cittadino chiede una garanzia di immobile sicurezza dell'ambito privato e affida nel contempo la soluzione delle istanze di diversità: lo stato deve pensare ai deboli e ai non conformi senza però incidere sulle abitudini del singolo.
In altre parole deve fare sparire il problema, rimediare al generico senso di colpa di una morale pubblica di "Valori" ufficiali che non trovano però riscontro nei "valori" competitivi e individualistici dell'etica privata.
La risposta al diverso non può essere che l'emarginazione.
Nascono quindi spazi appositi, in cui, in nome di una presunta apertura culturale, non vigono le regole ed i controlli riservati alla popolazione normale.
Queste forme di "tolleranza" finiscono per impedire il processo integrativo, enfatizzando i caratteri di diversità e creando una realtà parallela di non conformità inconciliabile.
La fine di ogni dialettica porta allo stigma, la negazione della processualità in favore dell'etichetta sociale.
Ciò che non si riesce a perdonare agli emarginati è che non lo siano mai abbastanza (F. Ferrarotti, 1982).
Il mondo dei "diversi", confinato ai margini della realtà dei "normali", non può che mettere a disagio l'individuo, terrorizzato dalla stessa etichetta di non compatibilità che la società ha dato al non conforme.
Il pronto intervento delle forze dell'ordine porrà un temporaneo rimedio a un problema che si manifesterà presto con rinnovata veemenza.
La conformità
La costruzione di una forma urbana rassicurante si orienta verso una ridefinizione di un ordine sociale fondato su criteri di legittimazione sempre più rigidi, che portano a inclusioni o esclusioni radicali(C.Landuzzi, 1999).
Sistemi urbani molto organizzati elevano la soglia minima di abilità necessarie a un individuo per essere pienamente inserito nella società.
La disabilità, o comunque una non abilità, divengono handicap, pregiudiziali a una vita normale, quando l'ambiente non permette all'individuo di sopperirvi sfruttando le sue abilità residue.
In questo senso si può dire che l'handicap è una funzione ambientale.
L'obiettivo di "controllo totale" della macchina urbana è un pesante ostacolo alle capacità di assimilazione della diversità e la città crea emarginazione.
L'apparente funzionalità della zonizzazione ha in effetti determinato un modello urbano molto rigido, la cui fruizione attiva è condizionata dal possesso di un alto numero di abilità.
Anziani, bambini, poveri, immigrati, handicappati vedono compromesse le proprie possibilità di accesso a una città che pare strutturata per la piena fruizione solo da parte di un ristretto gruppo di individui conformi, che possono guidare e possedere un'auto, avere avuto contatti con la logica informatica, avere uno standard di vita compatibile…
La forma della città non prevede spazi di espressione per la diversità e, soprattutto non ha saputo esprimere uno spazio a destinazione d'uso non specifica (e quindi altamente flessibile) come la piazza.
La città manca di vuoti funzionali urbani, di possibilità di fruizione casuale o imprevista.
Le dotazioni di servizi di una città devono essere valutate non solo in termini di disponibilità, ma anche di requisiti necessari alla loro fruizione.