Introduzione al capitolo 2:
SI PUÒ FARE URBANISTICA SOCIALE?
Le inferenze della forma della città sulla vita sociale che si sviluppa al suo interno sono state percepite e teorizzate da sempre.
La città è tuttora il veicolo propagandistico fondamentale di qualunque regime, che interviene sulla città non solo in chiave culturale, con l'inserimento di presenze monumentali celebrative, ma anche in termini di modificazione delle abitudini di vita dei cittadini.
L'idea della città come veicolo di diffusione non solo di un controllo politico, ma anche di una cultura, del senso di appartenenza ad uno stato, è stato alla base del processo di espansione dell'Impero Romano, in cui all'assoggettamento dei territori seguiva direttamente la fondazione di città, spesso derivate direttamente dai castra militari.
Molti piani urbanistici avevano tra gli obiettivi principali quello del migliore controllo della popolazione, e quindi di più agevoli possibilità di repressione di eventuali rivolte (la Parigi di Haussmann, per esempio).
Con la democrazia l'urbanistica rifiuta la connotazione ideologica per divenire strumento, tecnica; la città è restituita a chi la abita e lo stato si rende garante della tutela del cittadino, l'interlocutore dichiarato dell'agire urbanistico.
In realtà si passa dall'urbanistica del potere a quella del denaro, in cui la città è innanzitutto riconosciuta come organismo economico e la presunta libertà acquisita dal cittadino è rapidamente negata dalle esigenze dell'investimento privato.
La città diviene il territorio della speculazione, all'individuo resta la dimensione del proprio spazio privato.
La scala residenziale è da sempre quella oggetto del maggior numero di limiti normativi, nel tentativo di tutelare la qualità abitativa, mentre la qualità del tessuto urbano è pressoché ignorata.