La percezione del rischio
L'eterogeneità urbana non è più la promessa di possibilità di espressione per tutti, ma la radice dell'incertezza del vivere la città, un senso di costante incombenza del rischio.
Gli ottimismi del melting-pot, la contaminazione culturale come base di un nuovo modello globale, hanno lasciato il posto a una visione di diversità autoreferenzianti in difficile coesistenza reciproca, un universalismo culturale dai contorni sfuggenti in cui ogni regola è necessariamente relativa.
La fine della fiducia in una naturale processualità di progressiva integrazione lascia spazio al disorientamento, la perdita di riferimenti assoluti fa temere altrettanto per quelli individuali: è la fine della "disponibilità totale", il processo di emancipazione dalla marginalità è affidato all'individuo, non è più l'esito di una dinamica naturale tra gruppi e non è più percepito come "facile".
La diversità non pare più iscrivibile in un'immagine unitaria della città, il cittadino vive uno spazio che non è in grado di comprendere, la cui multiforme imprevedibilità è già motivo di minaccia.
La non appartenenza del cittadino alla città, la fine della dimensione collettiva sono alla base della percezione dei luoghi aperti come "luoghi deboli", aperti all'ingresso di fattori esogeni destabilizzanti.
Il pericolo è difficilmente reificabile, ma costantemente presente, è vissuto come esperienza personale anche senza il contatto diretto con situazioni effettivamente rischiose.
È una condizione di insicurezza ontologica, derivante dall'inconciliabilità della visione deterministica scientifica, che ci ha abituato alla certezza, e l'impossibilità per il singolo di sperimentare un'analoga sensazione di controllo nell'esperienza quotidiana.
La percezione dell'impotenza individuale di fronte al pericolo è preponderante rispetto alla definizione del pericolo stesso: il pericolo è pervasivo, diffuso, ma in definitiva irreale.
Il controllo del pericolo da parte delle istituzioni sembra confermare le incertezze del singolo attraverso una logica di intervento fatta di emergenze, soluzioni parziali, di razionalità limitata, nell'incapacità di una razionalità assoluta.
Il pericolo non è dunque identificabile, ma si formalizza in una dimensione territoriale (la strada, un quartiere…); la riduzione di scala degli spazi appare una premessa fondamentale per la loro controllabilità e lo spazio perimetrato è riconosciuto come oggetto della liberazione dalla minaccia dei fattori esterni.
Lo spazio personale è l'unico controllabile e difendibile, la sicurezza non è più patrimonio pubblico, ma privilegio individuale; lo spazio pubblico è così crescentemente privatizzato, perché il pericolo proviene sempre dall'esterno.
L'allarme sociale si riduce infatti proporzionalmente all'avvicinamento alla dimensione locale, agli spazi verso cui il singolo prova una sensazione di appartenenza; l'atteggiamento di impotenza e remissività di fronte al pericolo si trasforma in protezione di questi territori, spesso attraverso la chiusura e la repressione.
La città esplosa: ricerca dell'omogeneità e nomadismo urbano
Il diverso ha messo in discussione l'ordine urbano comunemente acquisito, un'immagine della città e l'incapacità di contestualizzazione del nuovo induce alla ricerca di aree circoscritte ed omogenee a massima specificità in cui rifugiarsi.
La città perde quindi un'identità simbolica frantumandosi in una miriade di contesti con autoreferenza di valori e simboli.
La città perde leggibilità, cioè la visualizzazione della molteplicità delle sue parti secondo uno schema identificativo unitario e coerente (K. Lynch, 1969).
Non esiste più una percezione globale della città, divenuta troppo differenziata per offrire un'immagine unitaria di sé, quanto l'idea di città come somma di addensamenti sociofunzionali.
All'interno di questa rete di microcosmi l'individuo traccia i percorsi della sua esperienza personale, e, in definitiva, i confini della "sua" città.
Viene a mancare il link tra urbs e civitas,
il meccanismo che, attraverso l'identità, ha legato nel tempo l'agire delle persone agli spazi della città(C. Landuzzi, 1999).
Le multiformi società a cui l'individuo appartiene sono spesso atopiche, possono essere localizzate in un luogo, ma difficilmente hanno nel luogo le radici della propria identificazione; fanno riferimento a una dimensione urbana "nomade" che ricostruisce e modifica continuamente confini e ambiti sociali.
Il "nomade urbano" fruisce e modifica la città attraverso l'interazione, conferendo significati simbolici e di utilità materiale agli spazi urbani, ma sempre in termini provvisori, limitati cioè alla durata dell'interazione.
Sono i soggetti stessi a supportare la forma urbana, la città è solo la quinta davanti a cui si svolge l'azione.
La strada misteriosa
Le strade sono sempre meno i luoghi in cui i soggetti si incontrano, girano, vanno a fare la spesa o a lavorare; sono diventati percorsi controllati e, nello stesso tempo, spazi di produzione di panico sociale (G. Amendola, 1997).
La fruizione della città come attraversamento, il passaggio da un luogo controllato ad un altro, ha reso la strada un non luogo per il nomade urbano.
Le strade restano però luogo di coagulo per forme di alterità che rifiutano il radicamento in forme e norme condivise.
La strada è l'elemento di rottura della linearità del quotidiano, il luogo dell'anonimato, in una società alla ricerca del controllo totale.
Per strada la molteplicità urbana diviene manifesta, e minacciosa per la sua stessa visibilità; il cittadino chiede un'estensione del controllo sociale anche su questi spazi, ma la richiesta di ordine si scontra con l'impossibilità materiale di garantire l'assenza dell'imprevisto e le strade restano il luogo dell'allentamento di regole e controlli sociali.
"Uomo di strada", "finire alla strada", sono espressioni del linguaggio corrente che indicano la svalutazione di cui è oggetto la strada e altri spazi pubblici.
D'altra parte la strada è celebrata come luogo della libertà, della non appartenenza (in letteratura come nel cinema: Kerouac, Hopper…) da una controcultura antiurbana che vede nella città un insieme di vincoli omologanti, ma che ha nella città le sue origini.
La cultura urbana sembra avere al suo interno i linguaggi della trasgressione e dell'anticonvenzionale(P. Guidicini, 1976), effettivamente consonanti con la ricerca di mostruoso e meraviglioso, grande ed eccezionale che sono alla base dell'appeal della città.
La strada urbana si carica di fascino, della stessa indefinitezza della strada di frontiera, in un orizzonte urbano in cui l'immaginazione diventa la dimensione della città in cui tutto può esistere se può essere pensato.
La cultura antiurbana ha trovato nella strada il suo luogo di espressione, tanto più la città organizzata si ritira in spazi recintati.
La strada diviene il punto dell'inevitabile conflitto tra ordine e caso.
L'incombente presenza del rischio nello spazio aperto, la visibilità del sintomo e l'inafferrabilità della causa, mi pare ben rappresentata dal graffito, la scritta sul muro.
Il graffito rompe equilibri, gesto unico e individualista che si oppone all'ordine serialità urbana.
Irrompe, repentino, imprevisto, esito di grande visibilità di un'azione anonima e invisibile, segno di una presenza sfuggente e non identificabile.
È il riemergere del caso in una struttura che non è sufficientemente ordinata per essere rassicurante.
Il segnale di un'alterità urbana, di una differenza che esiste e ha le sue radici nella città, pur rifiutandone l'ordine.
È un'azione assolutamente urbana, impensabile a prescindere dalla città, ma dai contenuti radicalmente non conformi.
È la manifestazione dell'ambiguità urbana, il precario equilibrio tra le esigenze di espressione e autoaffermazione personali e la richiesta del controllo (e della repressione) dell'altro.