Il recupero sociale della città
La sfida della città è oggi quella di rivitalizzare la vita sociale che si svolge al suo interno.
Superare l'isolamento sociale, ridurre lo standard pregiudiziale per la fruizione urbana, creare un modello con migliorate capacità di assimilazione.
Aprire la città comporta una nuova dimensione dell'azione urbanistica che tenga in prioritaria considerazione le ricadute sociali degli interventi.
Il modello culturale urbano può mantenersi vivo solo se resta legato all'esperienza individuale del nuovo e non diviene un retaggio culturale astratto.
La flessibilità e la capacità di interazione con il diverso e l'inedito sono i presupposti necessari alla sopravvivenza di una civiltà, ma anche l'unica possibilità di conservare la propria identità culturale effettivamente viva.
La città dei deboli non è, però, solo una risposta astrattamente sociale, comporta un effettivo miglioramento anche nella vita individuale dei "normali".
Nell'arco della propria esistenza chiunque sperimenta la condizione di debole (infanzia, vecchiaia, malattia…), o il confronto con un modello fortemente conformante come quello urbano (disoccupazione, povertà…), o i disastrosi esiti di una città che si è diffusa senza tessuto urbano (traffico, inquinamento…) e nell'incapacità di assimilare i gruppi non conformi (droga, criminalità…).
La soluzione di questi problemi non è ovviamente delegabile in toto a un nuovo modo di fare la città, ma non si devono trascurare le interazioni tra la forma della città e il modello sociale che rappresenta, non solo perché una forma di città induce un modo di viverla, ma anche perché un modo di vivere genera una forma di città.
Nuovi interlocutori per un'urbanistica sociale
Un'urbanistica che promuova una modificazione della vita sociale individuale può apparire paternalistica e invadente, ma credo sia invece una grande opportunità per il cittadino di diventare il baricentro di un'azione pianificatoria che lo ha quasi sempre subordinato agli interessi dell'investimento di capitale.
L'urbanistica sociale è innanzitutto della gente; programmare e costruire la città non può essere l'esito di un accordo tra la realtà amministrativa e quella imprenditoriale, ma deve coinvolgere la popolazione in forme opportune.
Il cittadino non può essere chiamato a coprire il ruolo dell'urbanista, come invece è accaduto in casi comici come quello della scelta referendaria sul progetto della nuova stazione di Bologna, ma la sua soddisfazione e le sue esigenze devono essere costantemente monitorate.
Creare infrastrutture sociali a partire da una realtà abitativa già consolidata è un processo difficile e rischioso perché sovverte la naturale successione degli eventi.
Il maggior pericolo di una politica di questo tipo è quello di non mantenere il necessario contatto con la realtà, producendo interventi incompatibili con abitudini e modi di vita già esistenti.
L'urbanistica deve trovare l'umiltà di uscire dagli uffici e scendere nelle strade, interpretarne le tensioni, divenire know-how e rendersi parte di un processo interdisciplinare di studio e pianificazione della dimensione urbana.
Rinunciare al monumento
Molte trasformazioni urbane volte al sociale hanno il linguaggio della monumentalità, dell'ideologia: mastodontiche rampe, invadenti servoscala, improbabili anfiteatri, gesti architettonici di grande valore simbolico che celebrano la loro diversità, episodica, ma emblematica.
Sono spazi che non fanno che sancire il distacco tra il cittadino e la città che vive, riproponendo spazi un tempo necessari e funzionali a un tipo di fruizione urbana in una chiave di retorica testimonianza.
Il significato aggiunto prevale sul valore funzionale.
Il monumento è non vivo per definizione, mentre il processo di infrastrutturazione sociale deve avere l'obiettivo di consegnare nuovi spazi ai cittadini, creare una rete di percorsi e luoghi pubblici a scala urbana a fruizione allargata e destinazione d'uso non specifica che parli il linguaggio della quotidianità.
Non l'omaggio a una cultura, ma la risposta ad un'esigenza concreta.
Le architetture dell'impegno verso il debole sono emblematiche, la loro presenza testimonia la presa in carico da parte delle istituzioni di un problema che il singolo delega completamente all'esterno.
La loro forma non cerca compromessi, ignora contesti e preesistenze con la stolidità del gesto dovuto, tanto brutto quanto necessario.
La realtà dei normali si rende percorribile ai motulesi attraverso le forme dell'estraneità, la risposta ipocrita di un generico senso di colpa che non riduce le distanze tra il diverso e il mondo.
Il problema di un handicappato non è però solo quello della discesa da un marciapiede, è l'impossibilità di accesso a un modo di vita che amplifica continuamente le sue disabilità e, in definitiva, lo ignora.
Accettare il caso
La città deve recuperare una dimensione sociale che contempli la casualità e la differenza come elementi connaturati al vivere urbano.
L'utopia del controllo ha reso il cittadino debole e impreparato di fronte alla diversità.
L'azione urbanistica deve favorire lo sviluppo di un modello urbano aperto che riconosca nella visibilità del molteplice urbano una premessa sostanziale per il conseguimento di nuove forme di convivenza e integrazione.
La crescente domanda di sicurezza non può essere realisticamente soddisfatta con la tutela ad oltranza delle richieste di omogeneità dei microcosmi sociali.
La città deve essere ricucita, recuperare la sua unicità d'immagine.
Credo che questo passaggio possa avvenire grazie soprattutto a una promozione della dimensione pubblica che offra al cittadino la possibilità di riconoscersi in una realtà più ampia del suo contesto di relazioni intenzionali.
La possibilità del contatto diretto ha come conseguenza un indebolimento del pregiudizio; la richiesta isterica di sicurezza calerà quando il pericolo avrà contorni definiti e non sarà solo la proiezione del disorientamento.
Il bello e l'identità urbana
La città dell'attraversamento è divenuta una dimensione sostanzialmente temporale, la dispersione territoriale di luoghi funzionali.
La città rischia di perdere le radici della propria identità, come conferma la crescente rinuncia alla specificità architettonica: condomini, centri commerciali, aeroporti nascono identici in città diverse, portatori di un linguaggio atopico, senza riferimenti alle specificità locali.
Il tessuto di collegamento è non luogo per eccellenza, pura dimensione temporale, durata di percorrenza.
Ricreare un'identità locale non è il rifiuto della globalizzazione di un modello, un'antistorica circoscrizione di orizzonti, ma la possibilità di ricostruire un'identificazione tra il cittadino e il suo contesto di vita, e quindi, in definitiva, lo stimolo ad un'apertura verso una dimensione collettiva che superi i contorni di un individualismo alla deriva in un contesto di confusa enormità.
La globalità del modello urbano è disorientante se non si confronta con un'immagine solida e radicata della realtà locale.
Alla molteplicità inafferrabile di un modello l'individuo reagisce con la chiusura in una dimensione privata controllabile, o con un atteggiamento di crescente passività ed indifferenza di fronte agli stimoli esterni, comportamenti che sono la vera premessa alla risposta del localismo come chiusura difensiva.
Riconoscersi in uno spazio comporta anche la rivalutazione dei valori estetici della città, superare la concezione del bello come lusso, della standardizzazione di tecniche costruttive e forme architettoniche come premesse per un'ottimizzazione produttiva che riconosce il solo valore del contenimento dei costi.
L'impoverimento del linguaggio formale degli spazi pubblici ha portato a una non-estetica della dimensione sociale, ma l'importanza della bellezza del tessuto urbano è testimoniata dall'intensa fruizione dei centri storici, l'indifferenza del cittadino rispetto agli spazi pubblici è evidentemente legata alla loro piacevolezza.
Il problema maggiore è però quello del recupero di un linguaggio formale per la dimensione pubblica, che non può prescindere dal confronto con i modelli locali, per interrompere la lunga serie di piazze "moderne" tanto aliene da non indurre nessuno a viverle.
Alcuni anni fa lo spot di una bevanda ritraeva un gruppo di ragazzi che piantavano un arbusto trivellando la fredda distesa pavimentata della piazza del Fiera District di Bologna; la produzione non avrebbe certo scelto Piazza Maggiore come location alternativa, che pure non ha alcuna presenza arborea.
La piazza sotto le torri di Tange è un gesto architettonico che parla un linguaggio di modernità fine a se stessa, la presenza umana sembra quasi imprevista in questo lastricato spazzato dal vento in inverno e arrostito dal sole in estate.
Le dimensioni sono sovraumane, accentuate dall'assenza di qualunque elemento verticale che riduca l'orizzonte visivo: percorrendola si ha quasi l'impressione di camminare senza spostarsi effettivamente.
La piramide sormontata dal parallelepipedo orizzontale sembra un monumento ai lampeggiatori delle auto della polizia americane e riassume l'ostentata indifferenza di questo spazio a qualunque "località".
Tutto il Fiera District celebra il tributo alla città globale, l'allineamento della Bologna provinciale coi valori delle grandi metropoli; le torri rinunciano al confronto con qualunque tradizione (del resto è difficile che si scelga un architetto giapponese se si intende operare una rilettura in chiave contemporanea dei valori formali locali) per una modernità che si vergogna delle radici locali.
Bologna resterà più famosa per la mortadella che per il suo quartiere fieristico e la piazza, che a Parigi sarebbe stata probabilmente piena di gente (abituata a fruire di spazi enormi e nuovi), resterà deserta.
Ho preso l'esempio di questa piazza perché è, nel contempo, un buon esempio di forma (molte piazze moderne non sono neppure questo) e un pessimo risultato di luogo sociale, testimoniando, mi pare, come la progettazione dei luoghi sociali non richieda solo abilità compositiva, ma anche l'umiltà di concepire spazi per una comunità, di rinunciare cioè alla totale autonomia ideativa per interpretare radici e abitudini di un luogo.
Il problema formale è ancora più avvertibile analizzando la strada, che presenta problemi di identità accentuati dal carattere lineare di questo luogo.
La strada gode di pochissime attenzioni al suo aspetto perché la sua fruizione è ormai legata alla dimensione automobilistica, eppure è proprio lo studio della forma dei percorsi che può realizzare forme di convivenza meno invadenti con l'auto, distinguendo innanzitutto i percorsi pedonali e ciclabili da quelli destinati alle vetture e limitando le intersezioni tra queste realtà.
Il rapporto tra auto e pedone si è sempre svolto in termini antitetici, vera guerra urbana di accelerate e dossi artificiali.
La modulazione della larghezza della sede stradale e il controllo dell'arredo stradale sono forme decisamente più evolute di intervento sulle velocità di percorrenza.
Una strada può presentarsi come urbana anche senza un cartello che lo segnali, mentre un rettilineo a tre corsie sarà comunque un luogo di velocità.
Eliminare guard rail da autostrada nelle strade delle periferie, differenziare pavimentazioni, progettare opportuni inserimenti di alberi sono interventi che possono creare strade in cui il pedone non si senta minacciato.
La sincronizzazione semaforica può ridurre le soste inquinanti e regolare la velocità di percorrenza.
La strada percorsa da pedoni aumenta la possibilità di incontro e riconoscimento reciproco tra gli abitanti di una zona, contribuendo alla creazione di un'identità di luogo.